" Mi diede un bacio sulla fronte - me lo dava anche da sposata - poi sorrise, si girò e uscì dal portone. Insisteva per salutarmi dentro, nella penombra dell'androne, da una parte le scale che si facevano largo tra i muri e dall'altra l'affaccio di Stefano, il portiere. Temeva che, se fossimo usciti insieme, chi voleva colpirlo ferisse anche me. O uccidesse anche me. O uno dei miei fratelli. O nostra madre.
Come tutte le altre mattine, mi fermai qualche secondo per vedere la sua schiena diritta, la testa grande, la borsa del lavoro, dalla quale non si separava mai, immergersi nella luce di Palermo.
Ora mi si prenderà in giro: un magistrato, di una certa età, dire cose "da bambina"... Ma per me la luce è sempre stata un regalo di papà.
Lui aveva questa abitudine: la mattina portava il caffè a tutti quanti. Si alzava alle cinque, cinque e mezzo, faceva un primo caffè per sé, poi si metteva a lavorare. Le poche volte che mi sono svegliata all'alba, me lo ricordo nello studio, chino sul suo tavolo, con la testa negli anni via via più pesante, gli occhi più preoccupati, intento a scrivere pagine e pagine di sentenze.
Dopo un paio d'ore si preparava e, nel frattempo, faceva un secondo caffè, apparecchiava un vassoio con le tazzine e veniva a svegliarci. Quando eravamo piccoli, a noi bambini ne metteva solo un cucchiaino nel latte, per farci sentire più grandi.
Io ero in camera con mia sorella e avevo il letto accanto al balcone. Lui arrivava, alzava la serranda, sentivo il suo vocione dire " Buongiorno", aprivo gli occhi e per prima cosa vedevo il cielo azzurro di Palermo. E questo cielo per me era un suo regalo, il modo più bello di iniziare la giornata.
Due giorni dopo è successo. Erano le 8.05 del 29 luglio 1983".
Caterina Chinnici
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