Per scacciare il desiderio di mordicchiarsi le unghie, chiuse gli occhi e pensò alla danza d’amore delle aquile.
Iniziava con il maschio e la femmina che si studiavano, planando in cerchi simili a giri di walzer. Il maschio a quota più alta, la femmina più in basso. Potevano continuare per giorni. Toccava alla femmina decidere quando trasformare il walzer in un tango. Lo faceva con grazia, infischiandosene delle correnti d’aria e della forza di gravità, ruotando su sé stessa e librandosi in volo rovesciato: schiena alla terra e sguardo rivolto al futuro compagno. Un invito ad avvicinarsi. Lentamente, però, perché l’irruenza non era né concessa né ammessa. Una cabrata, un’altra più stretta. Le ali che si sfioravano, l’artiglio che lambiva le penne più robuste poi, se la femmina lo permetteva, una carezza alle piume morbide del ventre. Il tocco leggero fra i due rostri acuminati, il primo bacio, chiedeva al maschio di dare prova di forza e generosità. Il maschio quindi si allontanava, scrutava fra arbusti, alberi o rocce e non appena avvistava una lepre, una marmotta o un furetto, chiudeva le ali e a velocità folle piombava sulla preda, l’afferrava con gli artigli e tornava in cielo per offrirla alla femmina. E se lei accettava di mangiare dal suo becco, nella stessa maniera in cui aveva ricevuto il cibo quando era un pulcino, la danza si concludeva in un vortice di passione, trasformandosi nella melodia segreta che avrebbe accompagnato i due rapaci fino alla fine dei loro giorni. Perché l’amore delle aquile era strano, pericoloso e per sempre.
Luca D’Andrea, L’animale più pericoloso
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