Un commesso mi venne incontro: neanche il tempo di indicargli l’oggetto della mia impazienza, ed eccolo in ginocchio che mi infilava le scarpe giuste della misura giusta. Com’è energetico e rassicurante sentirsi stringere i lacci! Quel commesso li stringeva con così dolce fermezza che, al nodo finale, i miei piedi, tintinnanti di gioia, presero a girovagare in un balletto festoso che si spargeva a caso un po’ a destra e un po’ a sinistra, fino a che non raggiunse lo specchio. Allora, fermandomi del tutto, annunciai decisa: “ Le prendo “; e una pace, mesta, calò su di noi, o almeno su di me. Eccomi qui, pensavo, con queste belle scarpe - sono mie, le ho ai piedi, ci ho pure ballato -, e invece di restare in quel piacere, restarci almeno fino al momento di andarci a letto, io me le tolgo e le faccio metter via, al chiuso, in una scatola.
Ah, ma perché non si è mai pronti per la felicità evidente? Per quale orrenda timidezza, o stupido pudore, o disgustosa ignavia, ci si scosta dalla cosa amata, dalla sua gioia scalpitante, e solo dopo averla sottoposta alla prova della distanza e della privazione, la si riammette nella nostra intimità.
Cos’è questo desiderio coscienzioso che all’ingorda e ingenua impazienza del piacere antepone la calma cerimonia del possesso? Cosa si stava preparando, un matrimonio? O un fidanzamento d’altri tempi?
Patrizia Cavalli, Con passi giapponesi
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