giovedì 27 ottobre 2011

lettera al quotidiano " La Repubblica" del dott. Gabriele Bronzetti

" Ora che la diagnosi è nota ( endocardite batterica) abbiamo un motivo in più per accostare Vasco Rossi a Gustav Mahler (inutile sottolineare la comune rottura con l'epoca di appartenenza). Il rocker emiliano nonostante la vita spericolata non ha rischiato di morire come le star del rock, le maledette j (Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Jones Brian dei Rolling Stones, John Bonham dei Led Zeppelin), ma come il morigerato musicista boemo morto esattamente un secolo fa all'età di 51 anni per un'infezione al cuore. Echi dell'anomalo ritmo cardiaco risuonano nel primo movimento della Nona, l'ultima incompiuta. La quarta sinfonia, dove il testo inneggia al vino che " non costa un quattrino nelle cantine celesti", può essere accostata alla canzone manifesto di Vasco Rossi sull'oblio etilico di provincia "... come le star a bere del whisky al Roxy bar". Io, cardiologo, continuerò ad ascoltare valvole mitrali con il mio stetoscopio. Sarei felice se anche solo un giovanotto Vascopatico mettesse su un mp3 di Mahler, e un solo canuto Mahlerofilo sentisse per una volta il Blasco.

lunedì 24 ottobre 2011

ottobre

Mentre l'estate ormai cede e si sfarina,
nell'orto,
che notoriamente vuole l'uomo morto,
sei ipocalorica eppur indomita regina;
t'amo pia zucca!
Debitrice del tuo oro
alla cacca di una mucca.



                                                vincent                                    

giovedì 20 ottobre 2011

riguardo al sapere come esperienza

Il sapere come esperienza

( note sconnesse)



L'aspetto grave del sapere per esperienza è che, se è autentico, arriva dopo, non serve, non è trasmissibile. Osservando la purezza dei grappoli d'uva, ho visto la lucentezza, la trasparenza e la perfezione che dovrebbe avere il sapere per esperienza, sapere che appare di rado, e quando appare, serve forse molti secoli dopo, come succede con la terra, che grazie all'esperienza e al lavoro, dà questa perfezione dei grappoli.



L'uomo è l'essere in cui essere e realtà non coincidono. E se non coincidono né per lui né di fronte a lui è perché non coincidono in lui, perché non si dà all'essere e alla realtà simultaneamente, nello stesso tempo, se non in rarissimi momenti, momenti straordinari, creatori, fecondamente interminabili tuttavia. Come realtà, l'uomo, al pari di ogni creatura vivente, ha bisogno di alimentarsi; come essere, a cui non può rinunciare, gli incombe, gli tocca alimentare, ossia darsi, darsi mentre ancora non è. Come può compiersi l'essere umano, dunque, se di questo sapere per esperienza non riesce a trasmettere a qualcuno, a lasciare a qualcuno l'esperienza? Non è necessario essere padre né maestro, né discepolo né figlio per voler lasciare l'espressione concentrata, per così dire, il succo della propria vita, di quel che si è riverito e amato quasi per sacro dovere, che ci ha mossi, per cui ci siamo mossi. Come si può spezzare questo affanno, questo affanno e imposizione di essere e di realtà contemporaneamente, senza accorciare nemmeno un poco la distanza tra le due facce o aspetti della vita di una sola creatura cosciente di sé? E se non fosse cosciente di sé, che cosa sarebbe per se stessa? Sarebbe propriamente un essere umano o non lo sarebbe più? Ci sarà la possibilità, Signore, di non essere umani affinchè essere e realtà coincidano, come in un grappolo d'uva, puro, morbido, duro, candido, perfetto? Qual è la via?



Ci devono essere molte vie. Ce ne devono essere varie per ogni persona, perché vari sono i tempi; e non mi riferisco solamente alle circostanze, ma al modo di vivere il tempo e al modo di patirlo.

Questo esordio alquanto impertinente, anticipa qualcosa di più impertinente, che è- non mi resta altra scelta che dirlo- parlare di me stessa, di qualcosa che è successo non so se a me o a chi altri; forse a qualcuno che è in procinto di nascere, di rinascere, per poi non nascere mai più, in un essere già compiuto o in un essere promesso e condannato a seguire.

Voglio riferirmi al mio arrivo in Spagna, a Madrid.

Durante l'immenso esilio, del quale non vedevo la fine, ogni volta che mi assaliva il pensiero di tornare in Spagna, rinviavo. Avevo forse trovato il mio posto nell'esilio? No. Non era la mia patria, l'esilio. Ma ogni volta che pensavo di tornare, temporeggiavo. Non era ancora il momento. Non era possibile. Quando sono tornata, è stato quasi senza sentire. E, quando ho visto le fotografie dei quasi sempre calunniati fotografi e ho letto le impressioni dei quasi sempre vituperati giornalisti­- sui quali si scaricano tutte le colpe- ho ricordato il passato.

Quando lasciai la Spagna, nel 1939, prevalsero in me l'immagine e la realtà, la realtà che si trasformò in immagine, ma immagine reale. Dovemmo passare la frontiera francese uno a uno, i più per mostrare la mancanza di passaporto, che io invece avevo, perché lo avevo ottenuto parecchio tempo prima, quando ero dovuta andare in Cile. L'uomo che mi precedeva portava un agnello sulle spalle, un agnello del quale mi arrivava il respiro, e che per un istante, un istante di quelli indelebili che valgono per sempre, per tutta l'eternità, mi guardò. E io lo guardai. Ci guardammo, l'agnello e io. Poi l'uomo proseguì, e si perse in quella moltitudine, in quella immensità che ci attendeva dal lato della libertà.

Che fare ora? Io non vidi più quell'agnello, ma quell'agnello ha continuato a guardarmi. E mi dicevo, e credo di averlo detto persino a mezza voce a un amico, o a un nemico, o a nessuno, o al Signore, o agli ulivi, che non sarei tornata in Spagna se non dietro a quell'agnello.

E poi sono tornata. E l'agnello non c'era ad aspettarmi ai piedi dell'aereo. Tuttavia, io feci in modo, quando infine misi piede a terra, di restare completamente sola e da sola calcare la terra spagnola, senza sostegno. Ma l'uomo dell'agnello non c'era. Quando mi sono resa conto? Ebbene, adesso, quando, forse per misericordia, forse per sincerità, alcune persone che apprezzo mi hanno detto che sono arrivata all'ora giusta, che sono arrivata proprio quando dovevo arrivare e come dovevo arrivare. E guardando le immagini scattate dai fotografi che mi attendevano, così commoventi, così bianche, così pure, ho veduto che l'agnello ero io. L'uomo che mi portava a spalla non appariva, perché io mi ero assimilata all'agnello.



Per essere, l'uomo deve assimilarsi, così come per sopravvivere nella realtà deve assimilarla. E assimilandosi, si assimila a qualcuno; è con un certo tremore che, parlando di me( ma, Signore, io sono una creatura umana e non ne ho colpa), mi riferisco al libro più sacro della nostra tradizione occidentale, dove si parla di Colui che si è fatto Verbo per l'eternità, Dio non di sacrificio, superiore al Dio d'Abramo; Colui che offrì il pane e il vino, l'eucarestia. E ciò significa che, per essere, la creatura umana deve assimilarsi, per quanto la cosa appaia indegna se la si guarda dal punto di vista nient'affatto grato e fecondo della gerarchia. Si sarà forse in testa nella stessa processione, ma nell'ordine liturgico è l'ultimo che conta. Si può essere di una filiazione, di una figliolanza: quella dell'agnello.

Così, senza che me lo proponessi, perché se me lo fossi proposto sarebbe stata un'allegoria o una caricatura, o semplicemente una pazzia, i lunghi anni dell'esilio sono serviti ad assimilarmi via via all'agnello, a quello sguardo indicibile, sguardo che non tento di tradurre in parole, al respiro dell'agnello, un respiro che sentii come vita, come vita di qualcuno che sa di essere destinato a morire e lo accetta. Di qualcuno che trascende la morte stessa e che a volte nelle mie passeggiate nei campi del Giura- da cui nacque il libricino Chiari del bosco-, mi faceva scorgere da lontano un agnello, una creatura, e poteva anche essere una colomba( più adatta alla mia anima femminile, più adatta all'immagine della libertà e dell'amore, più adatta anche alla terza persona della Santa Trinità), ma no, quello che mi appariva in lontananza era proprio l'agnello. E io avanzavo verso l'agnello; e, chiaro, non arrivavo mai, non potevo arrivare per quanto camminassi- e non sono stata una cattiva camminatrice-, perché quando giungevo al luogo non c'era, perché non era quello il suo luogo, non era sulla terra, ma tra cielo e terra, o chissà tra quale cielo e quale terra promessa.

Ma io camminavo verso quella che io chiamo lontananza. Uso questa parola perché durante una ritirata dell'Esercito sconfitto, il mio, qualcuno domandò: " Dove andate? ". " In lontananza! ", risposero. Fuggivano, come andai fuggendo io, in lontananza. Perché nella lontananza deve stare da sempre, dalla notte dei tempi, l'agnello che offre il suo respiro all'Universo, respiro di fuoco, pur essendo l'agnello così bianco, ma fuoco che non brucia, fuoco misurato, fuoco che si spartisce e respiro che si dà anche per gli altri, respiro per tutti, nato forse dal respiro primordiale che, insegna una sapienza venerabile, diede origine a tutto l'Universo.



Rileggendo il testo della Zambrano mi chiedo: perchè il sapere come esperienza non è trasmissibile?
Forse può esserlo, magari parzialmente, quello che ci conquistiamo con l'utilizzo di tecniche, il sapere artigianale; ma il sapere artigianale non matura dall'aver sperimentato e trasformato un dolore; ecco io sento che il sapere umano, quello autentico, è il lascito di un dolore.
Credo che la Zambrano, che durante la guerra civile spagnola fu costretta all'esilio, è di questo che scriva; allora, confinata com'è nella nostra carne, è l'esperienza del dolore che non è trasmissibile? 




                                                                                vincent  

           





mercoledì 12 ottobre 2011

"A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre" di Giorgio Caproni

Portami con te lontano
                            ... lontano...
nel tuo futuro.
Diventa mio padre, portami
                                per la mano
dov'è diretto sicuro
il tuo passo d'Irlanda
_ l'arpa del tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l'erba.

                        Serba
di me questo ricordo vano
che scrivo mentre la mano
mi trema.

              Rema
con me negli occhi al largo
del tuo futuro,mentre odo
(non odio) abbrunato il sordo
battito del tamburo
che rulla_ come il mio cuore in nome
di nulla_ la Dedizione.

Punta secca di Corrado Govoni

Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell'uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t'impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d'ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l'orchidea tu l'hai negli occhi.

giovedì 6 ottobre 2011

Uno sparo nell'Aurora

Un sentito grazie alla categoria dei cacciatori mattinieri che sparano all'Aurora.
Grazie perchè il tonfo sordo del loro fucile magnifica il silenzio dell' Aurora; silenzio che,  essendo massima capacità di ascolto, ha il potere di sciogliere nel suo essere ogni sordità.
 E nell'Aurora, frutto che lentamente matura nell'oscuro altrove del cielo, qui, dalle mie parti, da un uomo che vive tanto vicino alla mia vita che faccio fatica a distinguerlo, una fucilata, un alitare caldo.. forse di morte.
Forse le armi fanno il verso alla luce.
E sarà questo, chissà, il motivo che attribuisce agli eroi dei bambini " alabarde spaziali", in definitiva armi di luce.
Non essendo più luce.. e non essendo ancora luce, mal ci adattiamo alla condizione attuale.
Non date retta a quelli che parlano di velocità della luce; al cospetto del solenne incedere dell'Aurora, io affermo senza tema di smentita  che la luce ama la lentezza; sono le armi ad avere fretta, ma le armi non sono che l'estremo prodotto del definitivo degradarsi della luce; perciò il loro mercato non conosce crisi. A tutti i mattinieri, cacciatori e non, in attesa di un loro contributo.


                    vincent
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