lunedì 18 febbraio 2019






La dentiera era nuova, fatta per la parte inferiore destra della bocca. A causa della deformazione facciale, il dentista stava facendo una gran fatica ad adattarla con precisione; appena due giorni prima, appena era uscito per fare quattro passi insieme a me, mio padre se l’era strappata dalla bocca - “ Questo maledetto aggeggio! Troppi denti! “ - ma poi, quando l’aveva avuta in mano, non aveva saputo dove metterla. In quel momento stavamo attraversando North Broad Street, e il semaforo stava per diventare rosso. - Su, - dissi io, - dalla a me, - e presi la dentiera e me la misi in tasca. Con mia grande meraviglia, tenerla in mano era estremamente piacevole. Invece di provare disgusto o ripugnanza, mentre continuavo a camminare, prendendolo per un braccio per aiutarlo a salire sul marciapiede, ero divertito da quella che mi sembrava una cosa giusta, come se fossimo ormai diventati una coppia di comici: come se io fossi diventato la spalla di un clown con la dentiera malferma che invariabilmente faceva crollare il teatro per gli applausi, un numero all’altezza del naso di Durante o degli occhi di Eddie Cantor. Prendendo la dentiera, viscida di saliva com’era, e ficcandomela in tasca, avevo, del tutto involontariamente, attraversato la linea di demarcazione della distanza fisica che, in un modo non così innaturale, si era aperta tra noi quando avevo smesso di essere un ragazzo.



Philip Roth, Patrimonio 

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