lunedì 14 maggio 2012




Lo scrittore Elias Canetti dice in uno dei suoi saggi che la sopravvivenza è una ripetuta prova della morte. Una specie di esercizio di morte e di paura della morte. A volte sento che un popolo di accaniti sopravvissuti è un popolo, in un certo modo, più rivolto verso la morte. Così, il suo vero, profondo interlocutore, è la morte. Forse persino più della vita. Non intendo quel che è presente, ad esempio, nella cultura tedesca, una sorta di romantico innamoramento della morte, No. Parlo di qualcosa di diverso e di più profondo. Di una sorta di conoscenza di prima mano, una conoscenza che si trasmette per il cordone ombelicale, una conoscenza pienamente sobria della concretezza e della quotidianità della morte. Della insostenibile leggerezza della morte. Una conoscenza che si manifesta, ad esempio, in una frase che ho sentito recentemente nel corso di un'intervista a una giovane coppia israeliana che parlava dei propri programmi per il futuro, ed esprimeva il desiderio di avere tre figli, " perchè se uno viene ucciso, ne restano due".

David Grossman 

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