domenica 11 agosto 2013






"A volte i loro occhi si incontravano. Una presenza, un soffio rapiva il cielo di fuori. Provenivano da quel cielo, da quel gran vento azzurro di stelle. Era la Parola, la verità che urge nella lingua. Di quell'esistenza nello Zodiaco, loro, i bovini, avevano ereditato il silenzio; ma era la Parola che li aveva generati, la stessa che aveva voluto la vagina più stretta del vitello, senza di che la madre avrebbe guardato al figlio come al proprio sterco. E mentre tutto col tempo si adattava e si tramandava, come la stessa curva del giogo, lo stampo della madre restava sempre più stretto del figlio. Così la doglia ne assicurava il possesso.
A volte, nello strazio, le madri davano in un muglio: un muggito vacuo, inane: era la prova che il sigillo non si poteva rompere.
I bovi che si guardavano l'un l'altro, davano in grandi respiri, quasi anime d'aria. Eran tutti come vani, come distanti.
Esseri antichi anche loro, esuli, abitavano ciascuno la propria massa di carne e pesavano. Grandi, lunati dalle corone di corna, quando non erano sotto il giogo a fendere, spaccare la terra, o a trascinare il carro, giacevano accosciati, attaccati con tutto il peso al proprio letame. E il ritmo del sangue li scaldava. Ogni tanto un tafano, pungendoli, succhiava quel sangue. La coda che lo cacciava ne frustava il dolore. Poi il rumine mandava su la palla di cibo. Era il loro grande assunto, la loro vera missione. In quella pacatezza ritrovavano la solennità, la potenza. Il digrumare restituiva loro la maestà. Quel rimuginare coi denti la sapienza della terra quasi a meditarne i misteri, allargava i confini, li ricollegava alla notte. Il muro non c'era, e dentro la stalla contemplavano fuori. Tutto doveva essere trasformato, convertito in sangue: i campi, i prati, le brughiere; tutto, anche la paglia. Il resto era letame, letizia dei maggesi".



Fabio Tombari, Il Libro degli Animali   

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